Streghe nella notte di San Giovanni!
Si favoleggia che nella notte di San Giovanni le streghe passino a migliaia nei cieli recandosi al gran sabba che una volta si teneva sotto il Gran Noce di Benevento.
Questo noce, che scomparve definitivamente nel secolo XVII, pare fosse molto vecchio perché nel secolo VII, sotto il regno di Costante II, il vescovo Barbato l’aveva fatto sradicare per troncare alcune pratiche pagane che vi si celebravano in onore di qualche dea lunare, diffondendo la voce che era riuscito a cacciare il diavolo annidato in quell’albero. Ma dopo la sua morte un altro noce rispuntò nello stesso sito e i convegni demoniaci ripresero intorno al suo tronco. Fu allora, probabilmente, che si diffuse la voce delle streghe che si riunivano ogni anno volando da tutti gli angoli della terra nella magica notte solstiziale. Nonostante la definitiva morte del Noce di Benevento, le streghe hanno scelto, secondo la credenza popolare, un altro albero segreto verso il quale convengono regolarmente.
Un tempo, per evitare che qualche strega sconsiderata si introducesse in casa, si ponevano davanti all’uscio rosmarino, ginepro, olivo benedetto, alloro, fico e noce; oppure semplicemente un barattolo di sale e una scopa. Si diceva infatti che, prima di entrare, le streghe erano costrette a contare ad uno ad uno i granelli di sale e i fili di saggina della scopa; e non riuscivano mai a finire prima di mezzanotte, quando dovevano dileguarsi perché cominciava il giorno tutelato dal santo. Chi invece si trovava per la strada si proteggeva infilandosi sotto la camicia le cosiddette erbe di San Giovanni, come l’iperico, l’aglio, l’artemisia e la ruta. L’iperico, soprannominato anche ‘cacciadiavoli’, è l’erba di San Giovanni per antonomasia. I suoi petali strofinati fra le dita macchiano di rosso, proprio perché contengono un succo detto per il colore ‘sangue di San Giovanni’. L’aglio garantisce da ogni maleficio ed è talmente potente da provocare malesseri gravissimi alle streghe che gli si avvicinano, tant’è vero che in sanscrito è chiamato ‘uccisore di mostri’, i quali devono temere anche il basilico per le stesse proprietà. Infatti, secondo un proverbio romagnolo, ‘Chi ‘n compra i ai al dè ‘d San Zvan è puvratt tott l’an’, chi non compra gli agli il giorno di San Giovanni è povero tutto l’anno.
L’artemisia, il cui nome deriva da Artemide, la Grande Madre asiatica, è detta anche ‘la madre di tutte le erbe’: grazie al suo legame con la dea favorisce, secondo gli autori degli erbari antichi e medievali, i parti, impedisce le false gravidanze, accelera le mestruazioni quando esse sono in ritardo; ma caccia anche i demoni nascosti e neutralizza il malocchio. Infine la ruta dalle tante proprietà – cura epilessia, vertigine e ipocondria tant’è vero che nel Monferrato la si chiama ‘erba allegra’ – è un talismano contro le streghe. Una volta negli Abruzzi si cucinavano foglie di ruta insieme con altri ingredienti in una minuscola borsetta che si portava nascosta nel petto.
Queste e altre usanze per respingere le streghe di San Giovanni derivano da un’antica tradizione romana che cadeva non il 24 giugno, ma alle Kalendae fabariae, Calende delle fave: così era chiamato il primo di giugno da popolino perché i Romani vi offrivano alla dea Carna una farinata di fave, cioè la mangiavano ritualmente dedicandole il pasto sacro. Ovidio narra nei Fasti che Carna era una ninfa gelosa della sua verginità. Giano, innamoratosi di lei, riuscì con uno stratagemma a possederla e, per compensarla, le concesse il divino potere di tutelare i cardini degli usci e ‘le diede un ramo di spino – era bianco – con cui cacciar potesse i mali dalle soglie’.
Un giorno Proca, l’erede al trono di Alba Longa, che era ancora lattante, fu assalito dalle striges: uccellacci dalla testa grossa, occhi fissi, becco rapace, bianche le penne e artigli a mo’ di uncino, erano secondo una credenza popolare, riferita a Plinio il Vecchio, donne trasformate per magia in uccelli. Ma torniamo ad Ovidio:
‘Volan di notte e cercano i bimbi che sono senza balia,
li rubano dalle culle e poi ne fanno strazio.
Si dice che strappino con il rostro i visceri ai bimbi
lattanti, e col sangue succhiato s’empiano il gozzo.
E si chiamano striges il cui nome deriva da questo:
che sogliono di notte orrendamente stridere.'
La nutrice, atterrita dagli strilli, accorse alla sua culla accorgendosi che il bimbo era morente. Si precipitò dalla dea Carna la quale toccò per tre volte la porta con un ramo di corbezzolo, sparse l’ingresso d’acqua cui era mescolato un magico filtro; e, prese viscere crude di scrofa di due mesi, le offrì alle striges perché se ne cibassero rispettando quelle del bimbo.
Infine pose il ramo di biancospino sacro a Giano alla finestra che illuminava il lettuccio.
‘Si dice che da allora gli uccelli non offesero la culla e ritornò al bambino il colore che aveva. ’
Il rito apotropaico venne poi ripetuto da chi temeva l’assalto notturno di quegli uccellacci alla culla incustodita dei loro bambini. Le striges ispirarono il nome alle streghe medievali, anch’esse volanti come gli uccelli antichi. Le quali ‘sataniche’ streghe furono condannate fin dal primo Medioevo, tant’è vero che nel secolo IX il benedettino Reginone di Prum scriveva: ‘Queste femmine scellerate che si sono convertite a Satana confessano che nelle ore notturne vanno con Diana, dea dei Pagani, con innumerevole moltitudine di altre donne e, cavalcando sopra certi animali, nel silenzio della notte profonda, attraversano immensi spazi della terra, obbedienti alle lusinghe di questa loro padrona al cui servizio sono chiamate in determinate notti.’
La presenza di Diana, l’arcaica signora delle selve che venne assimilata alla luna, rivela come la figura della strega medievale sia il risultato di un processo di demonizzazione della religione romana sopravvissuta nei pagi, nei villaggi, e per questo motivo chiamata ‘pagana’ dai cristiani.
Accanto a Diana volva un’altra regina delle streghe, Erodiade, confusa nella leggenda popolare con la figlia Salomè che aveva ottenuto da Erode Antipa la testa di San Giovanni Battista con la danza dei sette veli. Quando le fu presentato il piatto con il capo mozzato del profeta, Erodiade – Salomè si pentì della mala azione coprendolo disperata di lacrime e baci. Pentimento tardivo: dalla bocca del santo uscì un vento furioso che sollevò la peccatrice nell’aria dove fu condannata a vagare in eterno.
Alfredo Cattabiani, Lunario, Oscar Mondadori