La dama e l'Unicorno!
La serie dei cinque arazzi di Cluny: La Dame au Licorne, e la serie di sei che si trova a New York: The Hunt of Unicorn, sono completamente diverse tra loro, svolgono temi diversi, si prefiggono differenti scopi e tuttavia, se unite contro ogni logica dell’immaginazione, costituiscono il culmine di un mito le cui origini si perdono nel magico oriente, e i cui significati sono celati nel sacrario d’una religione che, contro il volere del suo umile cuore, è giunta a dominare il mondo.
I temi gemelli e terribili di purezza e passione sono intessuti troppo fittamente in quegli arazzi, e noi abbiamo perduto la capacità di scinderli per poterli riunire.
Le due serie furono realizzate nello stesso secolo, il Quindicesimo, e nello stesso paese, la Francia. Ma la fortuna ha voluto che con l’aumentare della velocità dei trasporti esse siano state separate. E’ abbastanza raro vederle quando si è ancora tanto giovani da venir permeati da miti così potenti e antichi; è una straordinaria sfortuna vederle entrambe durante un unico ciclo lunare. E questa fu la malasorte di Claire. Anche il momento fu fatale: la precedente dama dell’unicorno, un’allegra contadina italiana che era stata capace di portare il proprio pericoloso destino in salvo fin nel cuore di un convento dove aveva vissuto con grande gioia e rendendosi molto utile per settantotto anni, era morta di recente, e l’unicorno, privato di quella lunga e semplice relazione, una delle più felici di cui avesse mai goduto, era impazienze. Clare restò davanti all’immagine dell’unicorno per alcuni estatici momenti, e se ne innamorò. E l’unicorno rispose come doveva a quell’attimo di innocenza, prendendo possesso del cuore e dell’anima di Clare affinché rispondessero ai suoi bisogni, perché l’unicorno è una bestia indomita e feroce.
Così, quando alcuni anni più tardi Clare andò all’università dalle pallide torri e dai pallidi poeti, molti dissero che ricordava qualcuno già visto prima, ma non riuscivano a ricordare chi fosse. Clare lo sapeva, ma non lo diceva; in realtà faceva tutto quanto era in suo potere per celare la somiglianza, cercando persino di coprire la fronte straordinariamente alta e le sopracciglia perfettamente emisferiche con una malriuscita frangia che non le si adattava affatto; benché non se ne curasse. E anche se erano in molti a trovare la sua freddezza inquietante, altri la consideravano invece una qualità affascinante e provocante insieme. Erano tutti molto giovani, capaci ancora di parlare di una conquista sessuale come se si trattasse d’un dono da concedere, e di quelli che non lo volevano, anche se mal impacchettato e offerto con malgarbo, come di vittime di una malattia seria ancorché incurabile.
Clare era intelligente e colta, aveva gesti garbati, quella bellezza che spaventava un po’, era ospitale, aveva molto talento letterario e una gentile dolcezza di modi. Cionondimeno, sembrava che non appartenesse mai alle persone e ai luoghi, e la gente la trovava strana e perciò desiderabile. Non potevano sapere che il loro era un desiderio impossibile: non potevano sapere che Clare aveva un amante, un amante segreto e pericoloso. Lei stessa non era al corrente del pericolo, conosceva soltanto il piacere.
Durante tutta l’adolescenza l’unicorno le era stato rifugio e conforto. Clare aveva imparato in fretta il potere della sua chiamata. Doveva soltanto inoltrarsi nelle profondità delle foreste della mente, dove gli alberi erano ordinatamente allineati e i sentieri si incrociavano tra di essi. Lì sedeva, su un soffice muschio punteggiato di fiori splendidi come gioielli, dove uccelli di specie sconosciute agli ornitologi cantavano, e aspettava. I primi tempi l’attesa era incerta; ma più tardi, e soprattutto quando i suoi seni alti e ben distanziati furono cresciuti, poteva richiamare a sé il desiderio e il grande unicorno bianco, con il corno a spire color dei raggi di luna sull’acqua e con gli astragali delicati, veniva fino a lei cercando il sentiero della foresta.
Veniva e giocavano insieme. Poteva sfuggire al mondo della materia e della fatica per arrampicarsi sulle colline, scherzare con la forza del temporale, cavalcare il vento e i lampi, rifare il verso al tuono. Meglio ancora, quando erano stanchi, l’unicorno si avvicinava e lei seduta e posava la grande testa fiera contro il suo cuore, con tremenda forza e purezza domate. Stendeva la calda seda della grande criniera sul petto di lei, con gentilezza, e insieme trovavano pace.
E Clare imparò ad amare lo spettacolo del mondo che cambiava, a conoscere la forma, la crescita e il significato delle cose selvagge e delle stelle. E non poteva sapere, inesperta com’era, quanto fosse pericoloso avere uno spirito che come un pesce in una fredda pozza salta verso l’esca d’un gioioso mattino rosato e un cuore che s’infuoca per i temporali estivi.
Gradualmente imparò anche le regole del suo fiero mante, i legami della fedeltà e della segretezza. Tuttavia, priva di una guida, come la maggior parte delle giovani dei giorni nostri, non comprese mai fino in fondo. Avrebbe dovuto dominare l’unicorno, comandarlo, legare e piegare la magica bestia al suo regale volere, ma non lo fece. Si concesse una pericolosa tenerezza verso l’amante, e questo fu uno sbaglio fatale. Lasciò che lui andasse e venisse a suo piacimento, lasciò che spadroneggiasse sulla sua immaginazione, lasciò che la dominasse, e l’unicorno diventò più ardente e pericoloso in mani così incapaci. Non fu il suo servo obbediente ma il suo signore e padrone; l’unica fonte delle sue gioie, dei suoi interessi, l’unico suo legame.
Era ovvio che ai suoi coetanei sembrasse strana e distante. Aveva alcuni amici, ma non sapeva di averne bisogno. Lavorava con impegno ma senza passione; e non imboccò la strada di quegli studi medievali o teologici che l’avrebbero aiutata a comprendere la sua sorte, o della più moderna area psicanalitica o politica che avrebbe esorcizzato la sua persecuzione.
Poiché la verginità è un momento, ma la castità è una dura virtù che deve essere tenuta oltre le fredde rupi scoscese della coscienza. E poi, un giorno, mentr’era rannicchiata sul pavimento, intenta a sorseggiare un caffè solubile in compagnia di amici piacevoli, udì una voce piena di indignazione; ‘Non essere stupido, certo che gli unicorni non possono volare; i cavalli alati volano, gli unicorni no’.
Guardò in su, e i suoi grandi occhi tondi nel volto pallido incontrarono un paio di occhi grigi; e riconoscendo William l’intero suo volto s’illuminò.
Era un bel giovane, William: e come avrebbe potuto non essere incantato da un simile sguardo di radioso benvenuto? Difficilmente avrebbe potuto interpretare correttamente quell’occhiata, soprattutto perché aveva scarse cognizioni, e pochissimo interesse, circa le consuetudini degli animali mitologici, e stava soltanto contraddicendo un amico. Vide che una donna di straordinaria bellezza l’accoglieva con un sorriso incantevole. Lei, povera sciocca, vide un Uomo che Sapeva.
La riaccompagnò al suo appartamento chiacchierando di amici comuni, delle questioni politiche del diciannovesimo secolo e dei progetti per le vacanze. E a un tratto lei rise e si scostò i capelli dal volto con un avambraccio. Lui la guardò e disse: ‘So a chi somigli; sembri la bellissima dama in quell’arazzo dell’unicorno. ’
E lei avvampò, rossore e dolcezza sul volto pallido, non di vergogna ma di piacere. Lui l’aveva riconosciuta, era in salvo. Ma William era confuso. Non capiva quel rossore e scherzò: ‘Mia bella dama, possa io essere il vostro unicorno e posare il mio capo sul vostro petto virginale. ’
A queste parole Clare si spaventò come una bambina, e provò vergogna di se stessa. Lui se ne accorse e con l’arroganza di chi non si sorprende fraintese la sua vulnerabilità.
‘Mi dispiace’, disse gentilmente, ‘preferirei essere il vostro cavaliere senza macchia, per servirvi e obbedirvi. ’
E in sollecita innocenza lei credette alle sue parole.
Gli credette perché voleva credergli, perché era sola, perché la magica tirannia dell’unicorno era superiore alle sue forze così giovani. E inoltre William era un bel ragazzo, gentile, semplice, lontano dalla magia bianca o nera, e rispondeva all’accoglienza di Clare, al suo modo d’accoglierlo come compagno. Gliel’avrebbe dovuto dire? Se glielo avesse detto non avrebbe capito. L’errore di Clare non fu il silenzio ma la convinzione che non c’era bisogno di parole, che lui sapeva già, mentre lui sapeva soltanto che gli unicorni non volano, e che il volto di lei, quasi perfettamente ovale, gli ricordava un arazzo riprodotto una volta da sua madre, donna abile ma piuttosto priva di gusto. Il volto di Clare non gli era estraneo, gli parlava della madre seduta a lavorare con l’ago, la sera, fuori e dentro una tela tesa. Un’immagine familiare, certo non abbastanza potente per proteggere un giovanotto in quella situazione pericolosa.
Dunque si innamorarono. In un certo senso. Si innamorarono in un modo che soltanto cinquant’anni prima sarebbe stato sicuro e piacevole per entrambi. Ma i tempi sono cambiati: nuove forze si sono levate contro gli unicorni e la castità. William sapeva che Clare l’amava. Ne dedusse perciò che lo desiderasse. Lei dedusse che lui conosceva le regole del suo strano gioco. Sbagliavano entrambi.
E quando l’inverno li raggiunse, rendendo le solitarie passeggiate di Clare nei boschi e nei campi meno invitanti, e inevitabili invece le calde serate trascorse in compagnia degli amici, dentro di lei incominciò a crescere la tensione. Provava molta paura e molta eccitazione.
E di lì a poco William la baciò. In un momento di distrazione forse, lei rispose al suo bacio. E scoprì qualcosa che prima non conosceva: il desiderio. Fu un momento; per un istante lungo come mai prima Clare si aggrappò ad un latro essere umano, le sue labbra chiesero mentre accettavano, e la sua solitudine per un attimo fuggevole svanì.
Più tardi lo lasciò per tornare a casa, e mentre percorreva le umide strade vide davanti a sé l’unicorno che s’apriva un varco nella vita, rivolgendole la groppa altezzosa, senza voltare la testa, per scomparire nella foresta scintillante che si apriva davanti e a sinistra, apparentemente senza averla notata. E per quel solo, inaspettato istante, provò un lampo di indignazione nei confronti del vecchio amico. Come osava trattarla con tanto disprezzo, come osava trattare in quel modo la Dama? No, non si sarebbe piegata a blandirlo perché tornasse, a sedurlo, incantarlo. Assaporò il gusto pulito, dolce e lontano del dentifricio di William e si distolse con determinazione dalla foresta. Aveva viziato l’animale, era stata troppo gentile con lui, troppo indulgente.
Tuttavia, più tardi, quella notte, si risvegliò in preda alla confusione, e montando un pony pomellato di sogni cavalcò nel bosco alla ricerca del piacer suo. L’erba era soffice come sempre, punteggiata di minuscoli fiori bianchi e scarlatti. Sedette sotto un albero e attese. Sapeva che c’era, poteva sentirlo muoversi nel bosco, intento a cercare qualcosa che non riusciva a trovare; vagava in un punto imprecisato tra gli alberi neri alle sue spalle, fiutando ansiosamente l’aria e calpestando il suolo con gli zoccoli. Lentamente si sfilò la camicetta dall’alto, pensando che il nudo del seno lo avrebbe aiutato, benché mai, prima di allora, avesse avuto bisogno di indicazioni; notò con grande stupore che i capezzoli erano duri ed eretti. Restò seduta, nuda dalla vita in su, chiamandolo, ma quando lui voltò la testa, sembrò non vederla. Passò oltre, accanto alle sue gambe aperte, e scomparve nel bosco. Clare rimase seduta per qualche tempo, sovrastata dalla desolazione, consapevole che i suoi capezzoli, ora, erano irrigiditi soltanto a causa del freddo pungente. Non poteva fare niente. L’unicorno l’aveva abbandonata.
E il suo cuore pianse. Era stata tradita. Ed era furente. Immediatamente pensò a William, il suo cavaliere, il cacciatore il cui compito era di strappare il velo del suo lungo sonno con il magico potere della spada. Colui che avrebbe ricatturato il suo unicorno bianco – latte per condurlo nel palazzo del Re del mondo reale, domato e vinto. Si alzò a sedere sul letto, nel cuore della notte che avvolgeva la sua stanza lo desiderò con una disperazione terribile e vendicativa. Poi ricordò, con travolgente sollievo e un’ostinazione nata troppo tardi, che non viveva in una mitica foresta ma nel mondo reale di una cittadina universitaria e che aveva un appuntamento con William l’indomani. Sarebbero andati insieme ad una festa. Si rannicchiò per dormire, abbracciata con piacere al ricordo del suo bacio gentile.
Venne l’indomani, con un aspro freddo improvviso e un greve odore giallo nell’aria. Sapeva che avrebbe nevicato, ma non accadde per tutta la mattina. Nel pomeriggio si levò un vento che l’agitava nell’intimo, tuttavia ancora non nevicava. Clare aspettava con crescente tensione; verso la fine del pomeriggio, quando scese l’oscurità, non riuscì ad aspettare oltre ed uscì nella sera. Dalla strada vedeva i laghi di luce dorata delle finestre, ciascuna delle quali, mentre il vento l’assaliva, proteggeva gente avvolta nel tepore. All’unicorno piaceva quel clima, tuttavia non l’avrebbe chiamato a sé, ferita e furente per il tradimento del giorno prima. Aveva digiunato per tutto il giorno; non voleva mangiare; l’interno della sua bocca attendeva e nello stomaco sentiva uno spigolo, duro e reale. Era sciocco essere tanto eccitati per una festa, si disse, e tornò su per fare un bagno. Il rumore dell’acqua che scorreva la rassicurò immensamente, rendendo lontano il terribile mondo esterno. Giacque nella vasca calda e lussureggiante e osservò i muscoli addominali che si contraevano a pelo dell’acqua: gli comandò di rilassarli e poco a poco, nel caldo vapore, ubbidirono. Ma quando incominciò a vestirsi notò che le sue mani tremavano in modo goffo e imbarazzante, e sedette sul letto cercando di ritrovare un respiro regolare.
A dispetto dell’attesa, quando uscì ne fu sopraffatta: l’intero mondo era cambiato, l’oscurità si era infittita per mostrare con più recisione ogni singolo fiocco di neve. Nevicava, senza gentilezza, orizzontalmente, e i fiocchi duri come ghiaccio, portati dal vento contro la loro volontà, erano incapaci di posarsi. E la loro appassionata inquietudine incontrò l’inquietudine di Clare, e catturandola nella loro follia la strapparono al riparo della soglia per gettarla in mezzo alla tempesta.
Era troppo violenta; le parve che gli indumenti che indossava venissero strappati dal suo corpo, che sarebbe diventata anche lei fragile e bianca, un altro fiocco nel vuoto della notte. Quando cercò di correre, per paura e per eccitazione, incominciò a scivolare e provò terrore. Un’altra raffica dentro il cappotto trasformò il panico in folle esultanza, e faticosamente avanzò lungo la strada. La neve, bianca contro il cielo nero, diventava d’oro nelle macchie ondeggianti di luce create dai fanali, e poi ancora bianca, quando volava via, inviolata. La neve imbiancò i suoi capelli allontanandoli dalla fronte, e il gelo incominciò a morderle la carne. Proseguì, a volte con la neve contraria, come un’implacabile nemica decisa a sconfiggerla, a volte con la neve dalla sua parte, come se anche lei fosse tempesta, un corpo con cui il vento poteva giocare. E la tempesta era la criniera dell’unicorno che sferzava la sua pelle; i fiocchi il moto delle sue belle caviglie e il vento i tendini, e scambiando quell’impeto per consenso si sentì piena di gioia folle e selvaggia.
Infine il vento la sospinse contro la porta della casa in cui abitava William, e Clare suonò il campanello. Rispose qualcuno da un appartamento del pianterreno, ma lei non vi badò. Il vento la spinse sulle scale e nella stanza: il calore di William riuscì ad incontrare il suo gelo. William alzò gli occhi dal libro e vide la straordinaria bellezza di vento e tempesta e la neve sull’alta fronte candida di Clare. Si alzò per avvicinarsi a lei.
‘Non ho sentito il campanello’, disse, e le sue labbra calde sul volto ghiacciato sciolsero la tempesta che ‘annidava in lei.
Insieme. Insieme sul tappeto davanti alla stufetta a gas. Lui bruciante del piacevole gelo di Clare, lei sciolta al suo calore avvampante. William sapeva, per esperienza personale, che non era giusto; né per lei, né per se stesso, ma la passione del desiderio di Clare era più forte… spezzare migliaia d’anni di castità in una sola selvaggia tempesta di desiderio… e non c’era posto per la tenerezza del luogo deserto del suo bisogno. Clare lo prese e lo dominò, e il fuoco sciolse la neve che la ricopriva e mutò il suo candore in rosa, e appassionatamente giacquero insieme sull’umida stuoia.
All’ospedale Clare non parlò. Non ne aveva la forza. Voleva spiegare, ma la consuetudine al silenzio era troppo antica. Spiegare era importante, ma le parole mancavano.
L’unicorno era arrivato inaspettato mentre lei giaceva tra le braccia di William, e in quel momento di felicità era stata lieta di vederlo. Voleva che il vecchio amico e compagno di giochi infantili dividesse con lei quell’esperienza. Era giunto fino a lei dopo una corsa selvaggia e pericolosa, e la gioia iniziale di Clare s’era subito frantumata davanti allo sguardo d’un occhio cerchiato di rosso, che risaltava il suo candore del manto. Non ci sarebbe stata gentilezza alcuna, e aveva sentito il colpo degli zoccoli che da quell’altezza scendevano su di lei. Aveva sentito il peso schiacciante delle ginocchia contro il suo petto, e la sua cassa toracica che si rivelava troppo fragile, come quella di un uccellino. Conosceva il potere della furia; e non poteva condannarlo, perché lei, che l’aveva amato e a lungo aveva accettato il suo amore, era stata infedele alla sua alta missione.
Lui l’aveva calpestata e percorsa, con un lungo corno, nelle profondità del ventre, macchiandosi della ruggine delle sue viscere; e l’aveva afferrata affondandole i denti nella spalla, gettatala col ventre all’ingiù sul pavimento l’aveva tenuta ferma, penetrandola, e il suo respiro più rovente e aspro di qualsiasi cosa conosciuta e sognata prima, bruciava sulla nuca. Sentì l’odore di bruciato tra i capelli e il vomito della bocca e merda sulle gambe e nessuna possibilità di fuga dalla durezza di quella penetrazione. E il fango e la terra della foresta calpestata furono nei suoi occhi, nelle narici, sulla lingua, e la durezza dei suoi zoccoli martellava gambe inchiodate, e il suo calore era entrato in profondità dentro di lei, battendo e affondando fino al cuore a un ritmo al quale non poteva, no, non poteva resistere. Affondava i suoi colpi su e giù, e non c’era via di scampo a causa del fango e del vomito nella bocca e del terrore sul volto di William, mentre veniva travolta dal grande mostro; e non c’era amore, nessun amore, soltanto i colpi interminabili fino a quando non vi una sola parte delle sue intime viscere che non fosse toccata dall’unicorno. Senza amore, con rabbia, non piacere ma castigo, e non aveva suppliche né vie di scampo, nessuna speranza di difendersi da lui, poiché pur conoscendo le regole del suo dolce amore gli era stata infedele. Aveva peccato e lui non le doveva altro che furore, violenza, follia e fine.
E quand’ebbero finito con lei se ne andò. Scomparve per sempre nei boschi senza mai più tornare. Ora, sarebbe stato solo e perduto, come lei, per sempre. Nessuno dei due era più vergine ormai, e l’antico incanto era spezzato. Era colpa sua, erta stata infedele, la sua colpa, il suo peccato.
E voleva spiegare ma sapeva che era impossibile, e in preda alla disperazione volse il capo verso il muro, distante dagli occhi attenti e ansiosi. Non vide come si spalancarono sbalorditi davanti alla sua schiena ferita: gli enormi segni dritti dei denti sulla spalla; le profonde ferite rotonde, come pugnalate, sulle sue bianche natiche, e le grosse escoriazioni su braccia e cosce, come larghi semicerchi profondamente aperti nella carne.
Sara Maitland, La dama e l’unicorno, racconto de Il Grande Libro dei Fantasmi, a cura di Richard Dalby, La Tartaruga Edizioni