I Signori del Mistero!

Il Capricorno, l’Acquario, i Pesci, l’Ariete, il Toro, pensava Aquiles Molinari, assopito. Poi ebbe un attimo d’incertezza. Vide la Bilancia, lo Scorpione. Capì di essersi sbagliato, si risvegliò, tremando.
Il sole gli aveva riscaldato la faccia. Sul comodino, sopra l’Almanacco Bristol e alcuni numeri de La Fija, la sveglietta Tic-tac segnava le dieci meno venti. Sempre ripetendo i segni, Molinari si alzò. Guardò la finestra. All’angolo c’era lo sconosciuto. Sorrise furbescamente. Andò nel bagno, tornò col rasoio, il pennello, un avanzo di sapone giallo e una ciotola d’acqua calda. Spalancò la finestra, guardò con calma ostentata lo sconosciuto e lentamente si fece la barba, fischiettando il tango Carta segnata.

Dieci minuti dopo era già in strada, con il vestito marrone per il quale doveva ancora due rate alle Grandi Sartorie Inglesi Rabuffi. Andò fino all’angolo, lo sconosciuto bruscamente rivolse la sua attenzione a una estrazione della lotteria. Molinari, ormai abituato a quei monotoni maneggi, si diresse all’incrocio di via Humberto I. L’autobus arrivò subito: Molinari vi salì. Per facilitare il compito al suo pedinatore, occupò uno dei sedili anteriori. Dopo due o tre isolati si girò indietro; lo sconosciuto, facilmente riconoscibile per le sue lenti scure, leggeva il giornale. Prima di arrivare in centro, l’autobus era già pieno.
Molinari avrebbe potuto scendere senza che lo sconosciuto lo notasse, ma il suo piano era migliore. Camminò alla Birreria Palermo. Poi, senza guardarsi indietro, voltò verso il quartiere Nord, costeggiò il muraglione del carcere giudiziario, entrò nel cortile; credeva di camminare con tutta calma, ma prima di giungere al posto di guardia gettò via la sigaretta che aveva accesa poco prima. Scambiò due chiacchiere con un impiegato in maniche di camicia. Un secondino lo accompagnò alla cella 273.
Quattordici anni prima, il macellaio Augustin R. Bonorino, che aveva partecipato al carnevale di Belgrano travestito da scugnizzo, s’era presa una micidiale bottigliata sulla tempia. Nessuno ignorava che la bottiglia di Bilz che l’aveva steso era stata vibrata da uno dei ragazzi della banda Zampa Santa. Ma poiché Zampa Santa era un prezioso elemento elettorale, la polizia decise che il colpevole era Isidro Parodi, che alcuni asserivano fosse anarchico, volendo dire invece che era uno spiritista. In realtà, Isidro Parodi non era né l’una né l’altra cosa: era padrone di un salone da barbiere nel quartiere sud, e aveva commesso l’imprudenza di affittare una stanza a uno scrivano del 18° Commissariato, il quale gli doveva oltre un anno di affitto. Questo cumulo di circostanze avverse segnò il destino di Parodi: le deposizioni dei testimoni (che appartenevano tutti alla cricca di Zampa Santa) furono unanimi: il giudice lo condannò a ventun anni di reclusione. La vita sedentaria aveva inciso sull’omicidio del 1919; adesso era un uomo di quarant’anni, laconico, obeso, con la testa rasata e gli occhi singolarmente saggi.

Quegli occhi, ora, fissavano il giovane Molinari.
-In cosa posso servirla, amico mio?
La sua voce non era eccessivamente cordiale, ma Molinari sapeva che le visite non gli dispiacevano. Inoltre una eventuale reazione di Parodi gli importava meno della necessità di incontrare un confidente o un consigliere. Lento e accorto, il vecchio Parodi succhiava mate da un bricchetto celeste. Ne offrì a Molinari. Questi, sebbene impaziente di raccontare la funesta avventura che aveva sconvolto la sua vita, sapeva che era inutile volere dar fretta a Isidro Parodi; con una calma che impressionò lui stesso, iniziò una conversazione banale sulle corse dei cavalli che sono degli imbrogli belli e buoni e nessuno sa chi vincerà. Don Isidro non gli prestò attenzione; tornò al suo rancore prediletto: se la prese con gli italiani, che si erano infilati dappertutto, senza rispettare nemmeno il carcere giudiziario.
-Oggi è pieno di stranieri, dai precedenti oltremodo equivoci, e nessuno sa da dove vengono.
Molinari, prontamente nazionalista, si unì a queste lamentele, e disse che lui era arcistufo di italiani e drusi, senza parlare dei capitalisti inglesi che avevano riempito il paese di ferrovie e di frigoriferi. Proprio ieri era entrato nella grande pizzeria ‘I Tifosi’ e la prima cosa che aveva visto era un italiano.
-E’ un italiano o un’italiana che l’ha inguaiato?
-Né un italiano, né un’italiana, - disse semplicemente Molinari, - Don Isidro, ho ucciso un uomo.
-Beh, dicono che anch’io ne ho ucciso uno, ed eccomi qui. Non se la prenda: la faccenda dei drusi è complicata, ma se lei non sta sullo stomaco di qualche scribacchino del 18° Commissariato, chissà che non riesca a salvare la pelle.
Molinari lo guardò stupefatto. Poi ricordò che il suo nome era stato collegato al mistero della villa Abenjaldun da un giornale senza scrupoli – ben diverso, certamente, dal dinamico quotidiano di Cordone, per il quale lui curava la rubrica di sport eleganti e di calcio. – Ricordò che Parodi conservava intatta la lucidità mentale, e, grazie alla sua prontezza e alla generosa distrazione del vicecommissario Grondona, sottoponeva ad attento esame i giornali della sera. In realtà don Isidro non ignorava la recente scomparsa di Abenjaldun, tuttavia chiese a Molinari di raccontargli i fatti, ma di non parlare troppo rapidamente, perché era piuttosto duro d’orecchi. Molinari, già più tranquillo, iniziò la storia:
Mi creda, io sono un giovane moderno, un uomo del suo tempo; mi piace vivere, ma mi piace anche meditare. Comprendo che abbiamo ormai superato la fase del materialismo. Proprio come diceva lei a suo tempo, e mi creda, le sue parole non sono cadute nel vuoto, bisogna risolvere l’incognita. Guardi, i fachiri, gli yoghi, con i loro esercizi respiratori e le loro fesserie, sanno un mucchio di cose. Bisogna smetterla e riconoscere che i drusi formarono una comunità progressista e sono più vicini al mistero di quanti vanno alla messa alla domenica. Intanto, il dottor Abenjaldun aveva una villa favolosa nel quartiere Mazzini, con una biblioteca fantastica. Lo conobbi a Radio Fenix, il giorno della Festa dell’Albero. Pronunciò un discorso molto significativo, e gli piacque un mio trafiletto che qualcuno gli aveva mandato. Mi portò a casa sua, mi prestò libri seri e mi invitò alle feste che dava in villa; niente elemento femminile, magari, però vere e proprie gare di cultura, glielo garantisco. Certuni dicono che credono negli idoli, e nella sala principale c’è un toro di metallo che vale più di un tram. Ogni venerdì si riuniscono intorno al toro gli akils, che sono, come si dice, gli adepti. Il dottor Abenjaldun voleva iniziarmi; io non potevo rifiutare, mi conveniva tenermi buono il vecchio, e d’altronde l’uomo non vive di solo pane. I drusi sono gente molto chiusa, e alcuni non credevano che un occidentale fosse degno di entrare nella confraternita. Senza farla lunga, Abul Hasan, il proprietario del parco camion per il trasporto carni, aveva ricordato che il numero degli eletti è fisso e che era illegittimo aggiungere nuovi affiliati; si oppose anche Izedin, il tesoriere: ma lui è un poveraccio che passa le giornate a scrivere, e il dottor Abenjaldun se la rideva di lui e dei suoi libricini. Tuttavia quei reazionari, con i loro antiquati pregiudizi, continuarono a farmi difficoltà e non esito a dire che la colpa di tutto, indirettamente, è loro.
L’11 agosto ricevetti una lettera da Abenjaldun, con la quale mi annunciava che il 14 mi avrebbe sottoposto ad una prova abbastanza difficile, per la quale dovevo preparami.
‘E come doveva prepararsi? ’, chiese Parodi.
‘Beh, come sa, per tre giorni, bere solamente tè e imparare i segni dello Zodiaco, in fila come stanno nell’Almanacco Bristol. Mi detti ammalato all’Ufficio sanità dove lavoro di mattina. Dapprincipio mi stupì che la cerimonia si tenesse di domenica e non di venerdì, ma la lettera spiegava che per un esame così importante era molto meglio il giorno del Signore. Io dovevo presentarmi alla villa prima di mezzanotte. Il venerdì e il sabato li passai tranquillamente, ma la domenica mi svegliai all’alba, tesissimo. Guardi, don Isidro, adesso che ci penso sono sicuro che avevo già un presentimento di quanto sarebbe successo. Ma non mi lasciai andare, passai tutto il giorno sul libro. Ero comico, ogni cinque minuti guardavo l’orologio per vedere se potevo già bere un’altra tazza di tè; non so perché guardassi tanto, comunque dovevo prenderlo: la gola era secca, e reclamava del liquido. Avevo tanto aspettato l’ora della prova, eppure riuscii ad arrivare tardi alla stazione di Retiro e dovetti prendere l’accelerato delle 23 e 18 invece di quello precedente. Per quanto fossi preparatissimo, continuai a studiare l’Almanacco in treno. Mi davano sui nervi certi imbecilli che discutevano della vittoria dei Milionari contro i Chacarita-Juniors, e, parola mia, di calcio non ne capivano un cavolo. Scesi a Belgrano R. La villa distava tredici isolati dalla stazione. Pensavo che la camminata mi avrebbe rinfrancato, invece arrivai mezzo morto. Ligio alle istruzioni di Abenjaldun, lo chiamai per telefono dal negozio di via Rossetti. Davanti alla villa c’era una fila di automobili; la casa era più illuminata di una veglia funebre, e di lontano si sentiva il vociare della gente. Abenjaldun mi stava aspettando sul portone. Lo trovai invecchiato. Lo avevo visto molte volte di giorno, ma quella sera notai che somigliava un poco a Repetto, ma con la barba. Ironia della sorte, come si dice: proprio quella sera, angosciato com’ero per l’esame, mi vado a fissare su queste sciocchezze. Seguimmo il sentiero lastricato che circonda la casa, ed entrammo dal retro. Nella segreteria trovammo Izedin, dalla parte dell’archivio.

‘Sono quattordici anni che sto qui archiviato, - osservò dolcemente don Isidro. – Ma quell’archivio non lo conosco. Mi descriva un po’ il posto. ’
‘Guardi, è molto semplice. La segretaria si trova al primo piano: una scalinata scende direttamente nella sala delle cerimonie. Qui erano radunati i drusi, circa centocinquanta, tutti velati e in tunica bianca, intorno al toro di metallo. L’archivio è una stanzetta attigua alla segreteria: è un locale interno. Io lo dico sempre, che una stanza senza una finestra, come si conviene, alla lunga diventa malsana. Non è d’accordo? ’
-Non me ne parli. Da quando mi sono stabilito qui, al quartiere Nord, i locali chiusi non li sopporto proprio. Mi descriva la segretaria.
-E’ una stanza grande. C’è una scrivania di quercia, con sopra l’Olivetti, alcune poltrone comodissime, di quelle in cui si sprofonda fino al collo, una pipa turca mezza marcia, che vale un patrimonio, un lampadario a gocce, un tappeto persiano, futurista, un busto di Napoleone, una biblioteca di libri importanti: la Storia universale di Cesare Cantù. Le meraviglie del mondo e dell’uomo, la Biblioteca internazionale delle opere famose, la raccolta de La Razon, Il giardiniere illustrato del Peluffo, Il tesoro della gioventù, La donna delinquente del Lombroso, e altro. Izedin era irritato. Ne scoprii subito il perché: era tornato alla carica con la sua letteratura. Sulla tavola c’era un enorme pacco di libri. Il dottore, impegnato con il mio esame, voleva sbarazzarsi di Izedin e gli disse: ‘Non si preoccupi. Stanotte stessa darò un’occhiata ai suoi libri. ’
Non so se l’altro gli abbia creduto: andò ad infilarsi la tunica per scendere nella sala delle cerimonie; non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Rimasti soli, il dottor Abenjaldun mi disse: ‘Hai digiunato scrupolosamente? Hai imparato i dodici segni del mondo? ’
Assicurai che dalle dieci del giovedì (quella sera in compagnia di alcuni giovani leoni della nuova ondata, avevo cenato con una lombatina e un po’ di girello al forno ai mercati generali) stavo solamente a tè. Quindi Abenjaldun mi chiese di recitargli i nomi dei dodici segni. Glielo dissi senza neppure un errore; me li fece ripetere ancora cinque o sei volte. Alla fine mi disse: ‘Vedo che hai rispettato le istruzioni. Non ti servirebbero a niente, comunque, se ora non ti mostrassi preciso e coraggioso. Mi consta che lo sei; ho deciso di non ascoltare chi nega le sue capacità; ti sottometterò ad una sola prova, la più pericolosa e difficile. Trent’anni fa, sulle montagne del Libano, io la portai a termine con successo; ma prima i maestri mi avevano concesso altre prove più facili; rintracciare una moneta in fondo al mare, una foresta fatta di vento, un calice al centro della terra, una scimitarra maledetta. Tu non dovrai cercare quattro oggetti magici; dovrai ritrovare i quattro maestri che costituiscono l’occulto tetragono della Divinità. Adesso, assorti in devoti esercizi, stanno intorno al toro di metallo; pregano on i loro fratelli, gli akils, anche essi velati: niente li distingue l’uno dall’altro, ma il tuo cuore li riconoscerà. Io ti ordinerò di portarmi qui Yusuf; tu scenderai nella sala delle cerimonie, pensando in ordine esatto i Segni del cielo; arrivato all’ultimo, quello dei Pesci, ritornerai al primo, che è l’Ariete, e così via, di seguito. Girerai tre volte intorno agli akils e, se non avrai alterato l’ordine dei Segni, i tuoi passi ti porteranno a Yusuf. Gli dirai: ‘Abenjaldun ti chiama. ’

E lo porterai qui. Poi ti ordinerò di portarmi il secondo maestro. Poi il terzo, poi il quarto. Fortunatamente, a furia di leggere e rileggere l’Almanacco Bristol, i dodici Segni mi erano rimasti bene impressi in mente; ma è sufficiente dire a uno di non sbagliare perché subito gli venga la paura di sbagliare. Non mi scoraggiai, glielo assicuro, ma ebbi un presentimenti. Abenjaldun mi strinse la mano, mi disse che le sue preghiere mi avrebbero accompagnato, e scesi la scala che porta alla sala delle cerimonie. Ero tutto concentrato sui Segni; inoltre quelle schiene bianche, quelle teste chine, quelle maschere lisce e quel tono sacro che non avevo mai visto da vicino, mi rendevano inquieto. Tuttavia feci i miei tre giri come dovevo e mi ritrovai dietro a un incappucciato, che mi sembrò uguale a tutti gli altri: ma dato che stavo ripetendo i Segni dello Zodiaco, non ebbi il tempo di riflettere e dissi: ‘Abenjaldun la chiama. ’
L’uomo mi seguì, mentre io continuavo a pensare ai Segni, salimmo le scale ed entrammo nella segreteria. Abenjaldun stava pregando, fece entrare Yusuf nell’archivio, e quasi subito tornò indietro dicendomi: ‘Adesso portami Ibrahim. ’ Ridiscesi nella sala delle cerimonie, feci i miei tre giri, mi fermai dinanzi a un altro incappucciato e gli dissi: ‘Abenjaldun la chiama. ’ Con lui tornai in segreteria.
-Aspetti un po’, amico – disse Parodi. – E’ sicuro che mentre lei faceva i suoi giri, nessuno sia uscito dalla segreteria?
-Guardi, le assicuro di no. Stavo ben attendo ai Segni e a tutto quanto, ma non sono così scemo. Non toglievo gli occhi da quella porta. Stia pur tranquillo: nessuno è entrato né uscito. Abenjaldun prese Ibrahim per il braccio e lo condusse all’archivio, poi mi disse: ‘Adesso portami Izedin. ’ Cosa strana, don Isidro, le prima due volte ero sicuro di me, questa volta invece ero sfiduciato. Scesi, girai tre volte intorno ai drusi e tornai con Izedin.
Ero stanchissimo: per le scale mi si annebbiò la vista, colpa dei reni; tutto mi parve diverso, persino il mio compagno. Lo stesso Abenjaldun, che ormai aveva tanta fiducia in me che invece di pregare si era messo a fare solitari, si portò Izedin in archivio e mi disse, parlandomi come un padre: ‘Questo esercizio ti ha stancato. Ci andrò io a cercare il quarto iniziato, che è Jalil. ’
La stanchezza è nemica dell’attenzione, ma appena Abenjaldun fu uscito mi aggrappai alla ringhiera della scalinata e mi misi a spiarlo. Il mio uomo fece i tre giri tranquillamente, prese Jalil per un braccio e se lo portò di sopra. Le ho già detto che l’archivio non ha altra porta se non quella che dà nella segreteria. Di lì entrò Abenjaldun con Jalil: ne uscì subito con i quattro drusi velati; si fece il segno della croce, perché è gente molto devota; poi gli disse in criollo di togliersi il velo; lei dirà che è pura fantasia, ma lì, davanti a me, c’erano Izedin, con la sua faccia da straniero, e Jalil, il vicedirettore de La Sicurtà, e Yusuf, il cognato di quello che parla col naso, e Ibrahim, pallido come un morto e barbuto, sa, il socio di Abenjaldun.
Centocinquanta drusi tutti uguali, e lì davanti c’erano i quattro maestri. Il dottor Abenjaldun quasi mi abbracciò; ma gli altri, che sono persone refrattarie all’evidenza e piene di superstizioni e di pregiudizi, non vollero rassegnarsi e si misero a protestare in druso.
Il povero Abenjaldun cercava di convincerli, ma alla fine dovette cedere. Disse che mi avrebbe sottoposto ad un’altra prova, difficilissima, nella quale però si sarebbe giocata la vita di tutti loro e forse il destino del mondo. Continuò: ‘Ti benderemo gli occhi con questo velo, ti metteremo nella mano destra questa lunga canna e ciascuno di noi si nasconderà in diversi angoli della casa e del giardino. Aspetterai qui fino al tocco della mezzanotte; dopodiché ci cercherai uno dopo l’altro, guidato dai Segni. Questi Segni governano il mondo; durante la prova ti sarà affidato il corso delle costellazioni; tutto il cosmo sarà in tuo potere. Se non alteri il corso dello Zodiaco, i nostri destini e il destino del mondo seguiranno il corso prestabilito; se invece la tua mente si blocca, se dopo la Bilancia immaginerai il Leone e non lo Scorpione, il maestro che cerchi morirà e il mondo conoscerà la minaccia dell’aria, dell’acqua e del fuoco. ’
Tutti approvarono meno Izedin, che aveva mangiato tanto di quel salame che gli occhi gli si chiudevano ed era cosi distratto che al momento di accomiatarsi ci tese la mano a tutti, uno per uno, cosa che non fa mai.

Mi dettero una canna di bambù, mi bendarono e si allontanarono. Rimasi solo. Che angoscia, per me: immaginare i Segni senza alternarne l’ordine; aspettare quei rintocchi che non suonavano mai; il timore di sentirli suonare e cominciare a girare per quella casa, che di colpo mi parve immensa e sconosciuta. Senza volerlo pensai alla scala, ai pianerottoli, ai mobili che avrei trovato sul mio cammino, alle cantine, al cortile, ai lucernai, che ne so. Cominciai a sentire di tutto: i rami degli alberi del giardino, la messa in modo della vecchia Isotta di Abd-el-Melek, sa, quello che ha vinto la lotteria dell’olio Raggio. In breve, tutti se ne andavano e io rimanevo solo in quel casermone, con quei drusi nascosti chissà dove. Fatto sta che quando l’orologio cominciò a suonare mi presi un grosso spavento. Uscii con la mia canna: io, un ragazzo giovane, pieno di vita che camminava come un invalido, come un cieco, lei mi capisce; presi subito a sinistra, perché il cognato di quello che parla col naso ha molto savoir faire e pensavo che l’avrei trovato sotto il tavolo; nel frattempo vedevo chiaramente la Bilancia, lo Scorpione, il Sagittario e tutti quei Segni; mi dimenticai del primo pianerottolo e proseguii ruzzolando giù per le scale; quindi entrai nel giardino d’inverno. D’un tratto mi persi. Non trovavo più né la porta, né le pareti. Certo, vorrei vedere: tre giorni solamente tè e il grande logorio mentale a cui mi ero sottoposto. Nonostante tutto riuscii a dominare la situazione e mi diressi dalla parte del montacarichi; sospettavo che qualcuno si fosse introdotto nella carbonaia, perché quelli là, per quanto istruiti, non hanno un briciolo della nostra furbizia. Così ritornai verso la sala. Inciampai in un tavolino a tre zampe, di cui si servono alcuni drusi che ancora credono nello spiritismo, come se vivessero nel medioevo. Mi parve che dalle pareti tutti gli occhi dei ritratti ad olio mi fissassero. Lei forse riderà: la mia sorellina dice sempre che io ho qualcosa del poeta e del pazzo. Ma non mi lasciai andare, e trovai subito Abenjaldun: allungai il braccio ed eccolo lì. Senza alcuna difficoltà trovammo la scala, che era molto più vicina di quanto non pensassi, e guadagnammo la segreteria. Durante il percorso non ci rivolgemmo una sola parola. Io ero impegnato con i miei Segni. Lo lasciai e uscii per cercare un altro druso. Proprio allora udii come un riso soffocato. Per la prima volta mi sfiorò un dubbio: mi venne da pensare che stessero ridendo di me. Subito dopo udii un grido. Io giurerei di non essermi sbagliato con i Segni: ma, prima per la rabbia e poi per la sorpresa, può darsi che mi sia confuso. Non nego mai l’evidenza. Tornai indietro e, tastando con la canna entrai nella segreteria. Inciampai in qualcosa sul pavimento. Mi chinai. Con le mani toccai dei capelli. Toccai il naso, degli occhi. Senza capire quel che facevo, mi strappai la benda. Abenjaldun stava lungo disteso sul tappeto; aveva la bocca piena di bava e di sangue; lo palpai, era ancora caldo ma già cadavere. Nella stanza non c’era nessuno. Vidi la canna che mi era caduta di mano: era macchiata di sangue sulla punta. Soltanto allora mi resi conto che lo avevo ucciso. Certamente, nell’udire la risata e il grido, mi ero confuso un attimo e avevo scambiato l’ordine dei Segni: tale confusione è costata la vita ad un uomo. Forse anche quella degli altri maestri… Mi affacciai alla ringhiera e li chiamai. Nessuno rispose. Atterrito, scappai nel retro della casa, ripetendo a bassa voce: Ariete, Toro, Gemelli, perché il mondo non mi crollasse addosso. Arrivai subito al muro di cinta, e pensi che il parco si estende per quasi un ettaro, me lo diceva sempre lo Sghembo Ferrarotti che il mio avvenire era nel mezzofondo. Ma quella notte fui una rivelazione nel salto in alto: d’un balzo scavalcai il muro che è quasi due metri. Mentre mi rialzavo dal fosso, cercando di togliermi un po’ di cocci di bottiglia che mi si erano attaccati addosso da tutte le parti, cominciai a tossire per il fumo. Dalla villa usciva un fumo nero e spesso come lana da materasso. Per quanto non fossi allenato, corsi come ai bei tempi; giunto a via Rossetti mi girai a guardare: c’era una luce in cielo come solo il 25 maggio per l’Indipendenza, la casa stava bruciando. Guardi un po’ che può succedere a scambiare i Segni! Solo a pensarlo, la bocca mi si secca più della lingua di un pappagallo. Scorsi un agente all’angolo e feci marcia indietro; poi mi infilai in certe stradette che sono una vergogna della capitale: come argentino ne soffrivo, mi creda, e dei cani mi inseguivano; bastò che uno solo di loro cominciasse ad abbaiare, che tutti si mettessero a latrarmi contro, assordandomi; in quella zona Ovest, non c’è nessuna sicurezza per il passante, né un minimo di vigilanza. D’un tratto mi calmai, perché vidi che ero arrivato in via Charlone; girai un po’, e mi ritrovai al muraglione del cimitero; dei disgraziati, fuori di un bar, per sfottermi si misero a sghignazzare: ‘Ariete, Toro’ e a fare dei pernacchi indecenti, ma io non gli badai e tirai avanti.

Ci crede che soltanto dopo un po’ mi resi conto che avevo continuato a ripetere i Segni ad alta voce? Mi persi di nuovo. Sa bene che in quei quartieri ignorano le regole urbanistiche e le vie si perdono in un labirinto. Nemmeno mi passò per la testa di prendere un mezzo; arrivai a casa con le scarpe ridotte a pezzi, all’ora in cui escono gli spazzini. Ero morto di stanchezza quella mattina. Credo d’aver avuto persino qualche linea di febbre. Mi buttai sul letto, ma decisi di non dormire, per non distrarmi dai Segni. A mezzogiorno mi diedi ammalato alla redazione e pure alla Sanità. In quella entrò il mio vicino, il rappresentante della Brancato, che mi tirò un po’ su e mi trascinò nella sua stanza a farci una spaghettata. Le parlo con il cuore in mano: dapprincipio mi sentii meglio. Il mio amico è un uomo di mondo e sturò il moscato del posto. Ma io non ero in vena di discorsi raffinati, e con la scusa che la salsa mi era rimasta sullo stomaco, me ne tornai nella mia stanza. Non uscii per tutta la giornata. Comunque, dato che non sono un eremita, ed ero preoccupato per la faccenda della sera prima, chiesi alla padrona di portarmi Las Noticias. Senza nemmeno buttare un’occhiata alla pagina sportiva, mi immersi nella cronaca nera e vidi la foto del sinistro: alle 0,23 del mattino era scoppiato un violento incendio nella villa del dottor Abenjaldun, situata nella zona residenziale Mazzini. Malgrado l’immediato intervento della sezione locale dei pompieri, l’immobile era rimasto preda delle fiamme, tra le quali aveva trovato la morte il proprietario, l’illustre membro della comunità sirolibanese, dottor Abenjaldun, uno dei grandi pioneers dell’importazione dei sostituti del linoleum. Rimasi senza fiato. Baudizzone, che non cura troppo la sua pagina, non aveva menzionato per niente la cerimonia religiosa e diceva che quella sera si erano riuniti per leggere la Preghiera, e per rinnovare le cariche. Poco prima dell’incidente avevano lasciato la villa i signori Jalil, Yusuf e Ibrahim. Essi avevano dichiarato che fino alle ventiquattro si erano intrattenuti amichevolmente con l’estinto, il quale, lungi dal presentire la tragedia che avrebbe posto fine ai suoi giorni e ridotto in cenere una classica dimora della zona Ovest, aveva fatto sfoggio del suo abituale esprit. Le cause della spaventosa conflagrazione non erano ancora state chiarite. A me il lavoro proprio non mi spaventa, ma da quel giorno non tornai né al giornale né alla Sanità e mi sentii proprio giù di corda. Due giorni dopo venne a trovarmi un signore molto gentile, e cominciò ad interrogarmi sulla parte che avevo avuto nell’acquisto di non so che spazzolini e canovacci da cucina per la mensa del grande magazzino di via Bucarelli; poi cambiò discorso e si mise a parlare delle comunità straniere e in particolare si interessò di quella sirolibanese. Promise, ma senza garantirlo, che sarebbe tornato a trovarmi. Ma non è più venuto. In cambio uno sconosciuto si è piazzato all’angolo e mi segue ovunque, con grande circospezione. So che lei è un uomo da non lasciarsi confondere né dalla polizia né da nessuno. Mi salvi, don Isidro, sono disperato.
-Io non sono né un mago né un fachiro, che viene e risolve indovinelli. Ma non ti negherò una mano. Però, ad una condizione: promettimi che mi darai retta in tutto.
-Come vuole lei, don Isidro.
-Benissimo, cominciamo subito. Dimmi per ordine i Segni dell’Almanacco.
-Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario, Pesci.
-Benissimo. Adesso dimmeli al contrario.
Molinari, pallido, balbettò:
-Teriea, Roto…
-Piantala con queste scemenze. Ti ho detto di cambiare l’ordine, di dire i Segni come ti vengono, in un altro modo.
-Cambiare l’ordine? Ma lei non mi ha capito, don Isidro, questo non si può fare…
-No? Dimmi il primo, l’ultimo e il penultimo.
Molinari, impaurito, obbedì.
-Bene, adesso che ti sei tolto di testa quelle panzane, vai al giornale. E non ti fare cattivo sangue.
Muto, sollevato, stordito, Molinari uscì dal carcere.
Fuori c’è altro che aspetta.

In capo a una settimana, Molinari arrivò alla conclusione che non poteva più protrarre una seconda visita alle carceri. Però lo seccava l’idea di ritrovarsi faccia a faccia con Parodi, che aveva portato a galla tutta la sua presunzione e la sua sciocca credulità.
Un giovane moderno come lui, farsi abbindolare da questi stranieri fanatici!
Le apparizioni del signore gentile si erano fatte più frequenti e più minacciose; non solo parlava dei sirolibanesi, ma anche dei drusi del Libano: la sua conversazione si era arricchita di nuovi argomenti. Per esempio: l’abolizione della tortura nel 1813, i vantaggi di uno strumento moderno, appena importato da Buchenwald.
Una mattina di pioggia, Molinari prese l’autobus all’angolo di via Humberto I. Quando scese al quartiere Palermo, scese anche lo sconosciuto, che era passato dalle lenti scure alla barba bionda…
Parodi lo accolse come al solito, con una certa freddezza; ebbe il buonsenso di non alludere al mistero di viale Mazzini. Parlò, argomento per lui abituale, di ciò che può fare un uomo che abbia una solida conoscenza del gioco delle carte. Rievocò l’immagine tutelare di Lince Rivarola, che si era beccato una sediata in testa giusto nel momento in cui estraeva un secondo asso di spada da uno speciale dispositivo infilato nella manica. Per completare l’aneddoto, tirò fuori da un cassetto un mazzo bisunto, lo fece mescolare da Molinari e gli chiese di distribuire le carte sul tavolo, con le figure coperte. Gli disse:
-Amico caro, lei che è un mago, darà adesso a questo povero vecchio un quattro di coppe.
Molinari balbettò:
-Io non ho mai preteso di essere un mago, signore… Sa bene che ho rotto tutti i rapporti con quei fanatici.
-Hai tagliato e mescolato: dammi subito il quattro di coppe. E’ la prima carta che prenderai.
Tremando, Molinari allungò la mano, prese una carte qualsiasi e la dette a Parodi. Questi lo guardò e disse:
-Sei un drago. Adesso dammi il fante di spade.
Molinari scelse un’altra carte e gliela consegnò.
-Adesso il sette di bastoni.
Molinari gli tese una carta.
-L’esercizio ti ha stancato. Alzerò io per te l’ultima carta, che è il re di coppe.
Prese con fare negligente una carta, e l’unì alle altre tre. Poi disse a Molinari di voltarle. Erano il re di coppe, il sette di bastoni, il fante di spade e il quattro di coppe.
-Non spalancare tanto gli occhi, - disse Parodi. – Fra tutte queste carte uguali ce n’è una segnata: la prima che ti ho chiesto, ma non la prima che mi hai dato. Ti ho chiesto il quattro di coppe, mi hai dato il fante di spade; ti ho chiesto il fante di spade, mi hai dato il sette di bastoni; ti ho chiesto il sette di bastoni, mi hai dato il re di coppe. Ti ho detto che eri stanco e mi hai dato il re di coppe. Ho preso il quattro di coppe che è segnato con questi puntini neri.
- Abenjaldun ha fatto lo stesso. Ti disse di cercare il druso numero 1, ma tu gli hai portato il numero 2; ti disse di portargli il numero 2, tu gli hai portato il 3; ti disse di portargli il 3, tu gli hai portato il 4, ti disse che sarebbe andato lui a cercare il 4 e portò su il numero 1. L’1 era Ibrahim, suo amico intimo. Abenjaldun poteva bene riconoscerlo tra tanti…

Questo capita a chi frequenta gli stranieri. Tu stesso mi hai detto che i drusi sono gente molto chiusa. Dicevi bene, e il più chiuso era proprio Abenjaldun, il decano della collettività. Agli altri era sufficiente disprezzare un criollo: lui volle metterlo in ridicolo. Ti disse di andare una domenica e tu stesso hai detto che il giorno delle loro cerimonie era il venerdì. Per renderti nervoso ti mise per tre giorni a tè soltanto e ad Almanacco Bristol; in aggiunta ti fece camminare per non so quanti isolati; ti propinò una funzione religiosa di drusi incappucciati e, come se la paura non bastasse a confonderti, inventò la faccenda dei Segni dello Zodiaco. L’amico era in vena di scherzi; non aveva ancora controllato (non lo avrebbe mai fatto) i libri contabili di Izedin: proprio di quei libri stavano discutendo quando entrasti tu, e hai creduto che parlassero di romanzieri e di poesie. Chissà quali imbrogli aveva combinato il tesoriere: di certo c’è che uccise Abenjaldun e incendiò la casa perché nessuno vedesse quei libri. Si congedò da voi dandovi la mano – cosa che non faceva mai – perché voi deste per scontato che se ne era andato via. Si nascose lì introno, aspettò che se ne andassero gli altri, che ne avevano abbastanza dello scherzo, e mentre tu con il bastone e bendato cercavi Abenjaldun, lui entrò nella segreteria. Quando tornasti con il vecchio, i due risero vedendoti camminare come un povero cieco. Uscisti per cercare il secondo druso; Abenjaldun ti seguì perché tu lo ritrovassi e ti facesti quattro viaggi a vuoto, riportando sempre la stessa persona. Il tesoriere, allora, lo pugnalò alle spalle: tu udisti il suo grado. Mentre ritornavi nella stanza a tentoni, Izedin fuggì, dando fuoco ai libri. Poi, per giustificare la loro sparizione, diede fuoco anche alla casa.

H. Bustos Domecq, I dodici segni del mondo.
Jorge Luis Borges – Adolfo Bioy Casares, I signori del mistero, Antologia dei migliori racconti polizieschi, Editori riuniti, 1982