Il conte uscì con l’animo afflitto da quella casa ove lasciava Mercede per non rivederla probabilmente mai più.

Dopo la morte del piccolo Edoardo, un grande cambiamento era avvenuto in Montecristo. Giunto al culmine della sua vendetta, dall’altra parte del monte gli si era offerto repentinamente allo sguardo l’abisso del dubbio.
Oltre a ciò, la conversazione avuta con Mercede aveva ridestato tante rimembranze nel suo cuore, che gli bisognava combattere quelle medesime rimembranze.
Un uomo della sua tempra non poteva più ondeggiare a lungo in quella malinconia che può far vivere gli spiriti volgari dando loro una apparente originalità, ma che uccide le anime superiori.
Riflettendo fra sé, Montecristo percorreva la via della Caisserie, la stessa per la quale, ventiquattro anni prima, era stato condotto da una scorta silenziosa; le case, dal ridente ad animato aspetto, quella notte erano tetre, mute e chiuse.
Scese alla spiaggia per la via San Lorenzo, e inoltrò verso la Consegna; era il punto del porto in cui lo avevano imbarcato. Uno schifo da passeggio passava col suo baldacchino di traliccio; Montecristo chiamò il battelliere, il quale subito volse verso di lui la prora.

Il tempo era magnifico. All’orizzonte il sole scendeva, rosso e sfolgorante, nelle acque che s’imporporavano al suo avvicinarsi; il mare era terso come uno specchio; lontano si scorgevano scivolare sui flutti, bianche e graziose, le barche pescherecce che si recavano alle Martignes, o le navi mercantili cariche per la Corsica e la Spagna.
Ma, ad onta del bel cielo, di quelle barche dalle graziose forme, dell’aurea luce che inondava la marina, il conte, avvolto nel proprio mantello, riandava nella mente, ad uno ad uno, tutti i particolari del terribile viaggio; l’unica ed isolata fiammella che tremolava a una finestra dei Catalani, la vista del castello d’If, la lotta coi gendarmi quando aveva tentato di precipitarsi in mare, la sua disperazione vedendosi vinto, e la fredda sensazione della bocca della canna del moschetto appoggiata alla sua tempia come un anello di ghiaccio.
Quindi, a poco, a poco, sentì a stilla a stilla sorgere nel petto l’antico fiele travasato di cui altre volte era inondato, il cuore affranto di Edmondo Dantés.
La navicella approdò.
Il conte indietreggiò per istinto fino all’estremità della barca.
Il battelliere aveva un bel dirgli colla sua più lusinghiera voce: - Signore, siamo giunti.
Montecristo si rammentò che nello stesso luogo, sulla medesima rupe, egli era stato violentemente trascinato dalle guardie, che l’avevano costretto a salire la gradinata, pungendogli le reni con la punta della baionetta.
Dopo la rivoluzione di luglio, non vi erano più prigionieri nel forte; un posto destinato ad impedire il contrabbando occupava solo i corpi di guardia; un custode aspettava alla porta i curiosi per fare veder loro quel monumento di terrore, diventato oggetto di curiosità.
Eppure, quando il conte entrò sotto quell’infausta volta, quando scese la buia scala, quando fu condotto alle carceri che aveva chiesto di vedere, un freddo pallore gl’invase la fronte, da cui il gelido sudore fu respinto sino al cuore.
S’informò se rimanesse qualche antico carceriere del tempo della Ristaurazione: gli fu risposto che tutti erano stati pensionati o passati ad altri impieghi.
Il custode, una guida, vi si trovava solo dall’autunno del 1830.
Fu condotto nel proprio carcere.
Rivide il fioco barlume che penetrava dall’augusto spiraglio; rivide il posto ov’era il letto, tolto di poi, e dietro il letto, sebbene otturata, ma visibile tuttavia per le sue pietre più nuove, l’apertura scavata dall’abate Faria.
Montecristo sentì piegarsi sotto le gambe, prese uno sgabello e sedette.
- Non si narra altra storia su questo castello oltre quella della prigionia di Mirabeau?
- Sì, signore – riprese il custode, - e su questo carcere appunto il carceriere Antonio me ne trasmise una.
- Montecristo trasalì. Antonio era il suo carceriere. Egli ne aveva quasi scordato il nome. Lo rivide tal qual era, con la faccia ispida di foltissima barba, il bruno camiciotto e il mazzo di chiavi di cui gli pareva di udire tuttavia il rumore.
- Vossignore desidera che gliela narri? – chiese il custode.
- Sì, narrate.
- Questo carcere, - cominciò la guida, - era abitato da un prigioniero, un uomo pericoloso, per quanto sembra, e tanto più pericoloso perché pieno d’industria. Un altro uomo abitava nella stessa epoca questo castello; costui non era cattivo, era un povero prete pazzo.
- Ah! Sì, pazzo – ripeté Montecristo – e quale era la sua pazzia?
- Offriva milioni a chi volesse rendergli la libertà.
Montecristo alzò gli occhi al cielo, ma non lo vide; fra lui e il firmamento vi era un velo di pietra. Pensò allora esservi stato un velo non meno fitto fra gli occhi di coloro ai quali l’abate Faria offriva quei tesori, e i tesori che offriva.
- I prigionieri potevano vedersi? – chiese quindi il conte.
- Oh! No, signore, era espressamente vietato, ma essi elusero la proibizione scavando una galleria che da un carcere metteva all’altro.
- E chi dei due scavò la galleria?
- Oh! Il giovane certo – disse il custode; - il giovane era ingegnoso e forte, mentre il povero abate era vecchio e debole; d’altra parte aveva la mente troppo vacillante per creare ed eseguire un piano.
- Ciechi!... – mormorò Montecristo.
- Ne risultò che i due prigionieri comunicavano insieme. Quanto tempo durò questa pratica? Non si sa. Ora un giorno il vecchio prigioniero cadde malato e morì. Indovinate cose fece il giovane? – esclamò il custode interrompendosi.
- Dite, su.
- Portò il defunto nella sua prigione, lo caricò nel proprio letto, colla faccia volta alla parete; poi tornò nel carcere vuoto, turò il buco, e si introdusse nel sacco del morto. Che ve ne pare?
Montecristo chiuse un momento gli occhi e risentì di nuovo tutte le impressioni provate quando quella tela grossolana, ancora impregnata dal freddo comunicatole dal cadavere, gli sfregiò il viso.
Il carceriere continuò.
- Sentite quale era il suo progetto; credeva che al castello d’If si seppellissero i morti, e supponendo che non si facessero spese di cataletto per i prigionieri, pensava di sollevare la terra colle spalle; i morti non si seppellivano; i becchini si accontentavano di legar loro una palla di cannone ai piedi e lanciarli in mare, come successe infatti. Il nostro uomo fu buttato nell’acqua dall’alto della galleria; l’indomani, si trovò il vero morto nel suo letto, e tutto fu spiegato, perché i becchini dissero allora quanto non avevano osato dire prima, cioè che nel punto in cui il corpo venne precipitato nello spazio, essi avevano udito un grido terribile tosto soffocato dall’acqua in cui era scomparso.
Il conte respirò penosamente, un freddo sudore gli stillava dalla fronte, l’angoscia gli opprimeva il cuore.
- E del prigioniero – chiese – non se ne udì più parlare?
- Mai, mai più; capirete, di due cose l’una; o cadde a piatto, e siccome cadeva dall’altezza di circa cinquanta piedi si sarà ucciso sul colpo.
- Voi diceste che gli avevano attaccata una palla da cannone ai piedi; sarà caduto in piedi.
- Oppure è caduto in piedi – ripigliò il custode, - ed allora il peso della palla l’avrà trascinato in fondo, over sarà rimasto, quel meschino!
- Che! Voi lo compiangete?
- Vivaddio, sì, benché fosse nel suo elemento.
- Che cosa volete dire?
- Che correva voce che quell’infelice fosse un tempo ufficiale di marina, incarcerato per bonapartiano.
- Non si seppe mai il suo nome?
- E in qual modo? Non era notto che sotto il numero 34.
- Villefort! Villefort! – mormorò Montecristo. – Ecco quanto molte volte tu hai dovuto dirti, quando il mio spettro importunava le tue febbrili insonnie.
- Vossignoria vuol proseguire la visita? – chiese il custode.
- Si, soprattutto se voleste farmi vedere la camera del povero abate.
- Ah! Del numero 27?
- Sì, del numero 27.
- Venite.
E, senza aver bisogno di risalire all’aperto, gli fece seguire un andito sotterraneo che lo condusse ad altro ingresso. Anche colà Montecristo fu assalito da un turbine di pensieri. La prima cosa che gli cadde sott’occhi fu la meridiana segnata sul muro, con l’aiuto della quale l’abate Faria numerava le ore; poi i rimasugli del letto su cui il povero prigioniero aveva esalato l’ultimo respiro.
A tale vista, invece delle angosce sofferte dal conte nel suo carcere, un dolce e tenero sentimento, un sentimento d’infinita gratitudine gli gonfiò il cuore, e due lagrime gli stillarono dall’umido ciglio.
- Qui- disse la guida, - stava l’abate pazzo, e il giovane veniva da quel buco a trovarlo. E additò a Montecristo il vano della galleria che da quella parte era rimasto aperto.
- Dal colore della pietra – proseguì, - un doto riconobbe che doveva essere dieci anni circa che i due prigionieri comunicavano insieme. Povera gente, si saranno molto annoiati in quei dieci anni.
Dantès cavò alcuni luigi di tasca, e stese la mano a colui il quale, per la seconda volta, lo compiangeva senza conoscerlo.
Il custode li prese, credendo ricevere qualche tenue monetuccia; ma alla luce della torcia riconobbe il valore della somma che gli porgeva il visitatore.
- Signore – gli disse, - vi siete sbagliato.
- In che modo?
- M’avete dato dell’oro.
- Lo so.
- Come! Lo sapete?
- Sì.
- E’ vostra intenzione di darmi quest’oro?
- Sì.
- E posso tenerlo in tutta coscienza?
- Sì.
Il custode contemplò Montecristo con stupore.
- Eppure è facile comprendere, amico – soggiunse il conte, - fui un uomo di mare, e la vostra storia mi commuove più di chiunque altra.
- Allora, signore – disse la guida, - poiché siete si generoso, meritate che vi offra qualche cosa.
- Che cosa hai da offrirmi, amico, delle conchiglie, dei lavori di paglia? Ti ringrazio.
- No, signore; qualche cosa che si riferisce alla storia di poc’anzi.
- Davvero! – esclamò vivamente il conte. – E che cosa è mai?
- Sentite – disse il custode, - ecco cosa accadde. Io dissi un giorno fra me: nella stanza ove un prigioniero rimase per quindici anni, vi si trova sempre qualche cosa; e mi posi a scandagliare le pareti.
- Ah! – esclamò Montecristo rammentandosi il doppio nascondiglio dell’abate; - infatti.
- A furia di ricerche – continuò il custode, - giunsi a scoprire un luogo che risonava come vuoto al capezzale del letto e sotto la cappa del camino.
- Sì – disse Montecristo, - sì.
- Alzai le pietre, e trovai….
- Una scala di corda e alcuni utensili! – esclamò il conte.
- Come fate a saperlo? – chiese attonito il custode.
- Non lo so, lo indovino – soggiunse il conte: - sono cose che si trovano d’ordinario nei ripostigli dei prigionieri.
- Sì, signore – disse la guida: - una scala di corda e vari utensili.
- E li hai ancora? – esclamò Montecristo.
- No, signore; vendei codesti diversi oggetti, ch’erano singolarissimi, a vari visitatori; ma mi rimase qualcosa d’altro.
- Che cosa? – chiese il conte con impazienza.
- Mi restò una specie di libro scritto su alcune liste di tela.
- Oh! – esclamò Montecristo – ti resta questo libro?
- Non so se sia un libro – disse il custode; - ma mi resta ciò che vi dissi.
- Va tosto a cercarmelo, amico, va – disse il conte; - se fosse ciò ch’io suppongo….
- Corro subito.
E la guida uscì.
Allora egli andò ad inginocchiarsi divotamente dinanzi ai rimasugli di quel letto, del quale la morte aveva fatto per lui un altare.
- Oh! Mio secondo pare – disse, - tu che mi hai dato la libertà, il sapere, la ricchezza, tu che, pari alle creature d’essenza superiore alla nostra, possedevi la scienza del bene e del male, se dal fondo del sepolcro resta qualche cosa di noi che s’agiti alla voce di coloro i quali rimasero sulla terra; se nella trasfigurazione subita dal cadavere qualche cosa di animato sopravvive e si libra sui luoghi ove molto amammo o molto patimmo; nobile cuore, spirito eccelso, anima profonda, con una parola, con un segno ed una rivelazione qualunque, te ne scongiuro, in nome del paterno amore che m’accordasti, e del rispetto che ti votai, toglimi quel resto d’incertezza che, se non si cambia in convinzione, diverrà un rimorso.
Il conte chinò il capo e giunse le mani.
- Prendete signore! – disse una voce dietro di lui.
Montecristo rabbrividì e si volse.
Il custode gli tendeva le liste di tela alle quali l’abate Faria aveva affidato i tesori del suo sapere. Quel manoscritto era il grande suo lavoro sull’Italia.
In conte se ne impadronì con premura, e il suo sguardo essendo subito caduto sull’epigrafe, lesse: ‘Il Signore ha detto: tu svellerai i denti al drago, e calpesterai i lioni.’
- Ah! – esclamò – ecco la risposta! Grazie, padre mio, ti ringrazio! E traendo di tasca un piccolo portafogli contenente dieci biglietti di banca di mille franchi cadauno:
- Prendi – disse – tieni questo portafogli.
- Voi me lo date?
- Sì, ma a condizione che non ci guarderai dentro, se non quando sarò partito.
E, ponendosi sul petto la ritrovata reliquia, che per lui aveva il pregio del più ricco tesoro, si slanciò fuori del sotterraneo, balzando agilmente in barca:
- A Marsiglia! – disse.
Appena sbarcato, corse al cimitero, ove sapeva di trovare Morrel.
Egli pure, dieci anni prima, aveva religiosamente cercato una tomba in quel cimitero, ma cercata indarno. Egli, che tornava in Francia con tanti milioni, non aveva potuto rinvenire la tomba di suo padre morto di fame.
Morrel, è vero, gli aveva fatto erigere una croce, ma questa era probabilmente caduta, e il custode se n’era forse servito ad alimentare il fuoco, come si fa di tutti i legni fradici giacenti, nei cimiteri.
Massimiliano stava appoggiato ad un albero e fissava sulle due tombe dei genitori gli occhi immobili e spenti.
Il suo dolore era profondo, quasi smarrito.
- Massimiliano – gli disse il conte, - non è là che dovete guardare, è lassù! E gli indicò il cielo.
- Gli estinti sono ovunque – disse Morrel, - non è quanto mi diceste voi stesso quando mi faceste partire per Parigi?
- Massimiliano – aggiunse il conte, - voi mi chiedeste durante il viaggio di fermarvi alcuni giorni a Marsiglia; è ancora tale il vostro desiderio?
- Non ho più desiderii, conte! Solo parmi che aspetterei meno dolorosamente a Marsiglia, che altrove.
- Tanto meglio, Massimiliano, perché vi devo lasciare pel momento, e porto meco la vostra parola, non è vero?
- Ah! La scorderò, conte, la scorderò!
- No, voi non la dimenticherete perché siete uomo d’onore anzitutto, perché avete giurato, perché giurerete ancora.
- Oh! Conte, abbiate pietà di me! Conte, sono così infelice!
- Conobbi un uomo molto più infelice, Morrel.
- E’ impossibile
- Sentite, Morrel, e raccogliete un istante il vostro spirito su questo sto per dirvi. Conobbi un uomo il quale, come voi, fondò ogni sua speranza di felicità sul cuore di una donna. Quest’uomo era giovine, aveva un vecchio padre che egli amava, una fidanzata che adorava; stava per sposarla, quando d’improvviso un capriccio della sorte gli tolse la libertà, l’amore, l’avvenire ch’egli tanto vagheggiava e credeva suo, per piombarlo nel fondo di un oscuro carcere.
- Ah! – fece Morrel – si può uscire dal carcere a capo di otto giorni, a capo di un mese, d’un anno…
- Vi rimase quattordici anni, Morrel – disse cupamente il conte, poggiando la mano sulla spalla del giovane.
Massimiliano raccapricciò.
- Quattordici anni! – mormorò.
- Quattordici anni – ripeté il conte. – Egli pure, in quei quattordici anni, quanti momenti ebbe di angosciosa disperazione! Anch’egli, al pari di voi, Morrel, credendosi il più infelice degli uomini, un dì volle uccidersi.
- Quindi? – chiese Morrel.
- Un giorno uscì prodigiosamente dalla tomba, trasfigurato, ricco, potente, semidio; il primo suo grido fu per il padre: il padre era morto!
- Ed anche a me il padre m’è morto! – disse Morrel.
- Sì, ma vostro padre vi spirò tra le braccia, amato, felice, onorato, ricco, pieno di vigore; il padre di quell’uomo era morto povero, disperato, dubitando di Dio; e quando dieci anni dopo la sua morte, il figlio ne cercò la tomba, anche la sua tomba era sparita e nessuno seppe dirgli: ‘Là riposa nel Signore il cuore che tanto l’amò! ’
- Oh! – esclamò il giovane.
- Colui era dunque più misero figlio di voi, Morrel, perché ignorava persino il luogo in cui era sepolto suo padre.
- Ma – disse Morrel, - gli rimaneva almeno la donna tanto da lui amata.
- Errate; quella donna….
- Era morta? – esclamò Massimiliano.
- Peggio ancora; fu infedele, aveva sposato uno dei persecutori del suo fidanzato. Vedete adunque, Morrel, che codesto uomo era più sventurato di voi.
- Ed a quest’uomo, Dio mandò la consolazione?
- Gli mandò almeno la calma.
- E quest’uomo potrà essere ancora un dì felice?
- Lo spera, Massimiliano.
Il giovane si lasciò cadere il capo sul petto.
- Voi avete la mia promessa – disse dopo qualche istante di silenzio. E stendendo la mano a Montecristo:
- Però ricordatevi:
- Il 5 ottobre, Morrel, vi aspetto all’isola di Montecristo. Il 4, una yacht vi attenderà nel porto di Bastia; si chiamerà l’Euro; direte il vostro nome al capitano che vi condurrà da me. Siamo intesi, non è ver, Morrel?
- Siamo intesi, conte; farò quanto dite; ma ricordatevi che il 5 ottobre…
- Ragazzo, che non sa ancora cosa sia la promessa di un uomo… Vi ridissi già le venti volte, che quel giorno, se vorrete tuttora morire, vi avrei aiutato. Addio!
- Voi mi abbandonate?
- Sì, debbo andare in Italia.
- E quando partite?
- Subito: il piroscafo mi aspetta, fra un’ora sarò già lontano da voi; volete accompagnarmi sino al porto, Morrel?
- Sono tutto vostro, conte.

Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo, Volume Secondo, Editrice Lucchi Milano, 1982

 

 

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